Da lunedì 18 maggio 2020 siamo chiamati ad una “nuova” normalità: l’inizio della “fase 2”, in vigore dal 4 maggio scorso, si avvia alla sua piena realizzazione, incentivata dalle riaperture di tutte le attività commerciali e lavorative ancora escluse dai “via libera” delle scorse settimane.
Bar, ristoranti, studi estetici e/o professionali, parrucchieri, ma anche le celebrazioni liturgiche, con le sante messe quotidiane e festive, sono pronte a questa nuova fase, che segna anche l’inizio di una nuova normalità.
Prima dell’“era-Covid”, tutti noi eravamo abituati ad andare e venire da un luogo all’altro, da una città all’altra dell’Italia, da uno Stato all’altro dell’Europa e del mondo, quasi senza controlli: le frontiere aperte, i trattati di libera circolazione delle merci e delle persone, almeno a livello europeo, ci facevano sentire cosmopoliti, cittadini di un mondo, in cui tutti eravamo liberi di fare e percorrere le strade che più ci piacevano e che più costruivano il nostro futuro.
Solo per fare un esempio, la cosiddetta generazione-Erasmus, ovvero l’insieme di quegli studenti universitari che grazie al programma di studi europeo denominato Programma Erasums (dal nome del filosofo Erasmo da Rotterdam), ha segnato in positivo un’epoca storica per il Vecchio Continente: giovani di tutte le nazioni europee hanno avuto la possibilità di studiare in un Paese dell’Unione Europea ed hanno avuto modo di vivere e condividere un’esperienza di studi e di vita che ricordano anche dopo anni.
Purtroppo, l’arrivo dello “tsunami-Covid” ha stravolto tutto questo vivere in modo “normale”: ha fermato le attività, le libertà di movimento non solo nazionale ed internazionale, ma anche tra le singole Regioni italiane, così come tra paesi e città confinanti. Sono state interrotte le interazioni sociali, le celebrazioni religiose di tutti i culti professati in Italia e nel mondo: come se tutto si fosse fermato a quell’inizio marzo con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (il famoso DPCM), con cui si dava inizio a un lock-down prima d’ora mai sperimentato, nemmeno in tempo di guerra.
In questi mesi ci siamo visti e parlati, abbiamo lavorato e interagito con il mondo esterno alle “quattro mura di casa” grazie alla rete internet e ai dispositivi di connessione che l’ingegno umano ha realizzato nel corso degli ultimi decenni e così ci ha dato modo di proseguire una vita quanto più possibile “normale”. Sebbene lontani fisicamente, ci siamo sentiti vicini a livello emotivo e forse abbiamo sperimentato tutti quel senso di smarrimento e di incertezza che l’incontro-scontro con questo nuovo virus sconosciuto sembra aver determinato.
I media sia pastorali che laici hanno svolto certamente un grande lavoro di supporto informativo e di intrattenimento, per quanto possibile e con le dovute precauzioni e problematiche contingenti alla situazione: riduzione del personale lavorativo, ristrutturazione dei palinsesti e anche cambi di programma in corso d’opera, che hanno messo a dura prova sia il sistema radio-televisivo più tradizionale, sia le nuove piattaforme digitali di fruizione dei contenuti.
Se si pensa al contesto più vicino a noi, abbiamo visto parroci e sacerdoti adoperarsi per aprire canali sui diversi social media e così cercare di portare la Parola di Dio direttamente nelle case degli italiani rinchiusi a causa della quarantena: è diventata una consuetudine darsi come appuntamento la diretta streaming della Santa Messa domenicale, piuttosto che della catechesi o, nei giorni della Settimana Santa, dei riti della Santa Pasqua.
Grazie ai media abbiamo imparato a leggere un grafico relativo all’andamento dei contagi su base nazionale e regionale, abbiamo imparato cosa significa il valore “R con Zero” (ovvero il numero medio di infezioni secondarie date dal virus[1]), ma abbiamo anche potuto vedere inermi immagini che difficilmente si potranno dimenticare: le colonne di mezzi militari pieni di bare destinate alla cremazione senza la possibilità di un ultimo saluto da parte dei propri cari sono solo un esempio di quanto male questa pandemia abbia portato e quanto abbia stravolto quella normale e abituale “quotidianità”, fatta di piccoli, semplici gesti e scambi di parole, che troppe volte abbiamo ritenuto come cose a noi dovute e da noi sottovalutate.
Oggi invece siamo chiamati a far nostra una “nuova” normalità, che dovremo imparare ex novo: un re-imparare a vivere nel mondo che, come per quanto riguarda una riabilitazione motoria, ha bisogno di regole ben precise che devono essere fatte nostre, devono essere assimilate nella nostra psiche e nel nostro modus operandi quotidiano, affinché si possa ritornare a vivere a pieno il nostro “essere-nel-mondo”.
Così, almeno per un certo periodo, mascherine e guanti diverranno consuetudini e forse, alla fine, non ci faremo più tanto caso… magari ci accorgeremo di coloro che ostinatamente si rifiuteranno ancora di indossarli; il distanziamento di un metro al bar e al ristorante diverrà forse un modo per riprendere possesso di quello “spazio vitale” che avevamo dimenticato in nome dell’utilizzo anche esagerato di tutto lo spazio disponibile per mettere gente e così guadagnare di più.
Magari non avere più i vagoni delle metropolitane o dei treni dei pendolari somiglianti a dei “carri bestiame”, soprattutto nelle ore di punta, ci darà modo di riconsiderare davvero l’utilizzo dei mezzi pubblici come vera alternativa ai mezzi privati o, ancora meglio, avviare quella tanto agognata svolta Green di cui ha tanto bisogno l’Italia e il mondo intero, ma che troppo spesso non si è potuta o voluta attuare in modo serio e soddisfacente.
E poi quell’elogio alla lentezza, che già alcuni autori anni fa avevano invocato, e alla pacatezza sono ritornati ad essere temi di riflessione importante: scoprire che forse non è prendendo il tram delle 7.52, piuttosto che quello delle 8.02, a rendere migliore la giornata; che non siamo in vita solo grazie al ritmo dello sliding doors (porte scorrevoli) e dei tornelli che attraversiamo per prendere l’ultima “metro” o che non siamo migliori perchè partecipiamo in massa ad eventi e concerti, nuove vere e proprie forme di “liturgie laicali”, ai quali troppo spesso si partecipava non per vero interesse, ma per dire solo “io c’ero”.
Ma pensiamo anche alle cosiddette classi-pollaio: in poche aule, spesso anche malconce, frotte di bambini, ragazzi e giovani hanno frequentato una scuola in fieri, continuamente un balia di un “già“ e di un “non ancora”: se da un lato infatti le esigenze della scuola dell’inclusione, della parità e della necessaria apertura alle tecnologie digitali richiedeva spazi sempre maggiori e al tempo stesso un’attenzione e una prossimità alunno-insegnate rasente al rapporto “uno-a-uno”, in realtà le cose erano strutturalmente ben diverse. Un numero di aule e di attrezzature inadeguato non dava la possibilità di svolgere una didattica adeguatamente declinata alle nuove esigenze dei bambini e dei ragazzi di oggi; così come un organico sempre insufficiente di personale docente e/o tecnico-ausiliario non ha sempre dato modo di vedersi realizzare quella didattica di prossimità e di attenzione alle singole esigenze di ognuno.
Ecco allora che ripensare anche al numero degli alunni all’interno delle aule scolastiche e a un adeguamento delle strutture scolastiche stesse può divenire occasione per una nuova normalità, che dia spazio all’incontro fruttuoso con le proposte didattiche più attuali (aperte alle nuove tecnologie e alle forme di inclusione sempre più impellenti) e le esigenze dei singoli alunni, non più visti solo come numeri, ma sempre più come persone dalle grandi capacità, se solo si riesce a farle emergere nel miglior modo possibile.
Allo stesso tempo, è pur vero che la bellezza di un abbraccio o di una carezza o ancora di una stretta di mano per saldare un’amicizia è impagabile: tutto questo oggi ancora non è possibile, ma forse anche se noi popolo latino siamo sempre stati molto “fisici” e dal contatto molto facile, questa situazione potrebbe rivelarsi utile a farci capire che non è una semplice pacca sulla spalla per dirsi amici e non è solo bevendo un drink dallo stesso bicchiere al sabato sera a rivelarci la vicinanza e il legame profondo tra le persone.
Forse son ben altre le modalità per essere davvero prossimi all’altro: una buona parola, magari scomoda ma vera e autentica, un gesto di carità o un aiuto concreto potrebbero essere molto più efficaci di mille gesti vuoti di significato, fatti solo per le apparenze esterne e “inautentiche” a livello interiore.
Così facendo quella “nuova” normalità che oggi siamo chiamati ad imparare e che giustamente dà adito a qualche dubbio, timore, incertezza diventerà una nuova normalità, più autentica, più vera, più significativa.
[1] Da: https://www.iss.it/primo-piano/-/asset_publisher/o4oGR9qmvUz9/content/id/5268851, visitato nel mese di maggio 2020.
Articolo di Silvia Vallè